L'intervento del Sottosegretario Mantovano all'evento "Le culture dell’intelligence economica nell’infosfera"

12 Luglio 2024

Propongo un salto indietro di 30 anni, risalendo fino al dicembre del 1994. Sulla rivista Limes Sergio Romano scrive un articolo dal titolo “Perché gli italiani si disprezzano”; prende le mosse da una dichiarazione di Umberto Eco: il quale, qualche mese prima, ancora preda di una fastidiosa patologia, il malassorbimento del risultato delle elezioni politiche tenute nel marzo di quell’anno, aveva detto di sentirsi “anti-italiano”, e di voler diventare cittadino di Sarajevo (città che all’epoca era sotto pesante assedio militare). 

Nelle parole di Eco, Sergio Romano intravedeva non più il classico “mugugno terapeutico”, con cui i popoli latini sono soliti affrontare le sfide della vita, compresa la vita politica: una sorte di “sindrome della suocera”, per cui tanto più sto meglio quanto più mi lamento. Romano identificava l’espressione di una nuova, radicale “mancanza di “rispetto di sé” che gli italiani non avevano mai sperimentato con tale virulenza dal momento della creazione dello Stato nazione”; una vera e propria “italofobia”, in cui “l’orgoglio che ogni uomo prova nell’identificarsi con la propria patria si è rovesciato nel suo contrario. Siamo tanto più bravi e intelligenti quanto più ci affrettiamo a parlare male dell’Italia”.

In realtà Eco si inserisce, con toni un po’ esacerbati, in quel filone di pensiero che ritiene l’Italia sia un Paese sbagliato, che ha perduto tutti gli appuntamenti più significativi con la Storia: al momento della rivolta luterana è rimasto con la Chiesa cattolica; ha mostrato scarso entusiasmo per la Rivoluzione francese, tant’è che quando Napoleone ha condotto in Italia sulle sue baionette i lumi del progresso, tutti i popoli della Penisola, chi più chi meno, si sono ribellati; e così via, fino al 18 aprile 1948, e oltre.

Ma se nel 1994 l’anti-italianismo stigmatizzato da Sergio Romano era circoscrivibile a un pur importante ambito culturale, nel 2024 non è più così limitato, e ha ricadute sul terreno economico e finanziario. Per questo ringrazio la School of Governament della LUISS per avermi invitato a questa importante riflessione. 

La globalizzazione finanziaria realizzata negli ultimi decenni comporta, come tutti sperimentiamo, che la minima variazione nella percezione di un determinato sistema-Paese è in grado di generare effetti economici diretti sull’intera popolazione. Faccio riferimento alla percezione non soltanto di elementi misurabili, come i fondamentali economici, ma pure di elementi impalpabili, come la stabilità politica, o la reputazione internazionale. 

Lo abbiamo vissuto nel 2011: l’improvvisa sfiducia nella capacità dell’Italia di sostenere il debito pubblico generò una pressione sullo “spread”, tale da portare alla sostituzione del governo politico di allora con un governo tecnico, e all’adozione di durissime misure di austerità imposte dalle istituzioni europee.

In misura diversa, la dinamica è sempre pronta a riproporsi. Nell’aprile 2023 – era il periodo del fallimento della Silicon Valley Bank e della crisi di Credit Suisse – la banca d’affari Goldman Sachs suggerisce agli investitori di liberarsi dei titoli di Stato italiani in favore dei titoli del debito spagnolo, scommettendo sul fatto che, a causa del nostro elevato debito pubblico, le politiche restrittive della BCE avrebbero portato a un’impennata dello spread. L’impennata non si verificò, ma l’orientamento di importanti istituti finanziari creò non poche fibrillazioni.

In un’intervista di qualche anno fa, George Soros – protagonista della speculazione sulla lira del 1992, che costrinse l’Italia ad uscire dal Sistema Monetario Europeo e a rientrarvi solo dopo l’approvazione di una manovra da 93 mila miliardi di lire, con annessa tassa sulla casa – ha affermato: “Gli speculatori fanno il loro lavoro, non hanno colpe. Queste semmai competono ai legislatori che permettono che le speculazioni avvengano. Gli speculatori sono solo i messaggeri di cattive notizie”.

Ho qualche dubbio, spero condiviso, sull’innocenza degli speculatori: senza escludere che dietro alcune manovre speculative si celano interessi non puramente economico-finanziari, per es. quello di contrastare alcune azioni di governo non gradite. Il problema è però che queste “cattive notizie”, di cui gli speculatori sarebbero meri messaggeri, a volte non sono tali oggettivamente: costituiscono narrazioni con cui vengono rappresentate, appunto, nell’ “infosfera”.

Pensiamo al debito pubblico. Certo, il suo peso sull’attività del Governo è gravoso, chi può negarlo? Però, trarre da questo dato un ininterrotto allarme per la tenuta dell’intero sistema-Italia, una sorta di sirena che urla in continuazione, è tanto errato quanto produttivo di effetti per noi negativi. E questo accade al primo, minimo, segnale di qualunque nuova sfida economica, o a qualche decibel di più nella fisiologica dialettica interna di una maggioranza di governo.

Non vengono raccontati con altrettanta insistenza ulteriori elementi, che ritraggono un sistema economico nazionale più solido di quanto quel che è trendy rappresentare; ne cito solo un paio, tra i tanti:

  • appena un quarto del nostro debito pubblico è in mani estere, contro il 50,5% della Francia e il 45,2% della Germania. I restanti tre quarti sono detenuti da famiglie, imprese e istituzioni finanziarie nazionali;
  • secondo il Consiglio Mondiale dell’Oro, al 31 dicembre 2023 l’Italia risulta essere al terzo posto al mondo in termini di riserve in oro (in tonnellate).

L’inquinamento dell’infosfera avviene non soltanto da parte degli “innocenti” speculatori, ma anche di alcune realtà non-profit. Diffondono pregiudizi e rappresentazioni esasperate dell’Italia, attraverso report presentati come “indipendenti”, spesso giocando di sponda con authority nostrane, indipendenti solo di nome, su tematiche di per sé non strettamente economiche, come il rispetto dei “diritti” o la diffusione della corruzione, in realtà redatti sulla scorta di criteri discutibili. E questo lede la capacità attrattiva rispetto agli investitori stranieri.

I racconti anti-italiani trascurano poi uno degli attuali punti di forza del nostro sistema: la stabilità politica che viviamo da ottobre 2022; una stabilità confermata – unico caso tra i principali Stati europei – dai risultati delle elezioni del 9 giugno. Eppure – sempre a proposito di infosfera ed economia – ricordiamo come, nella campagna elettorale delle elezioni politiche di due anni fa, lo spettro di un fascismo incombente fosse accompagnato dalla previsione dei cataclismi finanziari che si sarebbero abbattuti sull’Italia con l’arrivo di un governo di destra. Vaticini tutti, uno dopo l’altro, smentiti dai fatti.

A commento delle elezioni europee, larga parte dei media italiani si sono dedicati agli esiti dei ballottaggi delle concomitanti elezioni amministrative. Larga parte dei media europei, italiani inclusi, hanno comunque sancito che alla fine in UE non è cambiato molto. Se però usciamo fuori dai confini europei, scopriamo che la stabilità politica dell’Italia, rafforzata dal voto del 9 giugno, è percepita in modo diverso, certamente migliore.

Per necessaria riservatezza non vado nel dettaglio, ma subito dopo il 9 giugno come governo abbiamo ricevuto una serie crescente di richieste di incontro da parte dei governi di molti Nazioni non europee, che guardano a noi con interesse e fiducia. Talora le aspettative che ripongono in noi sono perfino eccessive: siamo certamente dotati di risorse e di capacità, ma non sempre abbiamo la “taglia” necessaria per affrontare da soli, in modo risolutivo, tutte le delicate e complesse questioni nelle quali veniamo coinvolti. Nel solco di questa crescente affidabilità che viene riposta nell’Italia, il “Piano Mattei” si arricchisce ogni giorno di nuove, concrete iniziative di cooperazione con l’Africa. 

Vorrei solo far cenno al lavoro che stiamo svolgendo nel Nord Africa, per lo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento, anche in aree desertiche. A seguito della visita della Presidente del Consiglio in Libia del maggio scorso, sono già arrivate in Cirenaica le sementi che permetteranno uno sviluppo agricolo sostenibile su una superficie di 5.000 ettari – pari grosso modo al territorio del Comune di Varese – grazie alle eccellenze di realtà aziendali e accademiche italiane; il progetto creerà 1.500 posti di lavoro, locali, e proseguirà nel settore dell’allevamento. 

Sabato scorso l’Italia ha siglato un accordo con l’Algeria, che nella provincia centro-settentrionale di Timimoun, nel deserto del Sahara, svilupperà l’agricoltura su 36.000 ettari, due volte la superficie del Comune di Milano. Il progetto, del valore di 420 milioni di euro, prevede che le produzioni (grano e legumi) siano destinate al mercato locale e per uso esclusivamente alimentare (quindi non biocarburanti). 

Si tratta di iniziative importanti, per le ricadute in termini di nuovi posti di lavoro e di miglioramento della sicurezza alimentare di quelle aree. Sappiamo bene come in troppi territori africani le tensioni sociali e politiche sono legate proprio alle incertezze degli approvvigionamenti del cibo, e all’oscillazione dei suoi prezzi a causa delle tensioni geopolitiche. Col Piano Mattei mettiamo da parte il racconto auto-lesionistico, in favore di un approccio di “sistema-nazione”, che include anche le imprese private.

Nell’innovativa cornice di una cooperazione davvero paritaria con i partner africani, da un lato le imprese italiane accedono a nuove opportunità commerciali, col sostegno delle istituzioni nazionali; dall’altro, le loro attività imprenditoriali producono beni e servizi che contribuiscono ad ancorare i partner africani alla sfera occidentale: in questo momento è una concreta alternativa alla penetrazione russa e cinese. Il percorso differente? È quello, ben piantato nella peggiore (questa sì) prassi italiana degli ultimi anni, secondo cui ciascuno si muove in ordine sparso; e così finora abbiamo perso commesse internazionali e occasioni di investimento. 

Al di là della patologica propensione burocratica ad andare ciascuno per fatti propri, per dominare ciascuno il suo orticello, l’esempio più tangibile del “costo” del non agire come sistema lo fornisce l’esperienza delle sanzioni. Vi è da un lato un approccio in questo caso non soltanto italiano, ma occidentale, di impronta formalistico-burocratica: quello in virtù del quale in Europa vengono sanzionati gli oligarchi, ma non le aziende europee a loro indirettamente riconducibili, per es. tramite trust. Dall’altro la Russia ha messo in piedi un sistema di contrasto alle sanzioni: efficace, perché si basa su una forte e strutturata cooperazione tra imprese nazionali e Governo. 

Mi spiego. Un’impresa russa - non un singolo - potrebbe veder riconosciuto da tribunali europei il diritto al risarcimento per i danni subiti dallo scioglimento di un contratto dovuto alle sanzioni e, in tal caso, troverà pieno ristoro sia in Europa che in Russia: dove, peraltro, grazie a previsioni normative di favore, può escutere agevolmente le garanzie prestate dalle banche europee, ancor prima che una sentenza si pronunci nel merito. Un operatore europeo difficilmente otterrà analoga soddisfazione: è arduo immaginare che organi giurisdizionali russi accolgano le sue ragioni; e, alla luce di alcune modifiche normative adottate dalla Russia per rispondere alle sanzioni occidentali, ancora più arduo è che l’eventuale sentenza favorevole ottenuta nei tribunali europei sia riconosciuta da quell’ordinamento.

Scendendo ancora più nel concreto. Oggi gli immobili, ma soprattutto i mobili registrati, tutti di pregio, sequestrati in Italia agli oligarchi sottoposti a sanzione, hanno un costo pesante di manutenzione e non riescono a essere messi a reddito: quanto è facile locale uno yacht di 60 metri… Fra qualche anno non è escluso che questi beni saranno restituiti e che dovremo indennizzare rubinetti nel frattempo deteriorati. È un meccanismo tutto in perdita. A scanso di equivoci, non sto contestando le sanzioni: contesto l’irragionevolezza della loro applicazione. 

È evidente che l’Italia e l’Europa debbano restare ben distanti da un modello che nega elementari principi di diritto. Dovremmo però interrogarci di più sulla ridotta capacità europea di fare sistema in modo efficace, al di là delle narrative con cui tendiamo a dissimulare le nostre vulnerabilità. Una riflessione, anche in una sede accademica come questa, potrebbe fornire spunti utili e suggerimenti al governo.

Un cambio di passo è comunque necessario. Per farlo occorre l’impegno di tutti. Ma, permettetemi di concludere come ho iniziato, dobbiamo lasciare alle spalle la “sindrome della suocera”: quel perverso compiacimento di parlar male di noi stessi, in quanto italiani. Ce lo chiedono le sfide che abbiamo davanti; ce lo chiedono gli italiani stessi, che – nella misura di tre su quattro, secondo le più recenti rilevazioni – si dichiarano ancora orgogliosi di appartenere a questa Nazione. 

Disperdere questo patrimonio per compiacere mode di importazione sarebbe davvero un peccato: di quelli che meritano un esilio non a Sarajevo, nel frattempo tornata al suo splendore, ma un po’ più lontano.