Consiglio europeo del 27-28 giugno, le Comunicazioni del Presidente Meloni alla Camera

Wednesday, 26 June 2024

Signor Presidente, Onorevoli colleghi,

siamo alla vigilia del primo Consiglio europeo della nuova legislatura comunitaria. Quella che prenderà il via ufficialmente il 16 luglio sarà la decima legislatura del Parlamento europeo, da quando, cioè, i cittadini hanno avuto per la prima volta nel 1979 la possibilità di votare direttamente i loro rappresentanti. Il prossimo 16 luglio si insedierà, infatti, il nuovo Parlamento, la cui composizione sarà il frutto delle indicazioni espresse nelle urne, tra i 6 e il 9 giugno scorsi, dai cittadini nei 27 Stati Membri dell’Unione.

Da quelle elezioni, che hanno rappresentato una tappa molto importante nella storia dell’Europa, possiamo e dobbiamo trarre, alcune importanti indicazioni. La più importante delle quali, ancora prima del voto dei cittadini, l’hanno data i partiti che ne sono stati protagonisti. Praticamente tutte le forze politiche, in questi mesi, hanno sostenuto la necessità di un cambiamento nelle politiche europee. Nessuno, tanto meno i partiti presenti in quest’Aula, si è presentato agli elettori dicendo che l’Europa andasse bene così com’era, che non c’era nulla che andasse cambiato e che sarebbe stato sufficiente mantenere lo status quo. Tutti hanno concordato su un punto: l’Europa deve intraprendere una direzione diversa da quella percorsa finora.

Questo posizionamento è frutto anche di una consapevolezza, che poi è stata confermata con il voto dai cittadini. Il livello di attenzione e di gradimento tra i cittadini europei per le istituzioni comunitarie è sempre più basso. Il gradimento è oggi intorno al 45%, un dato sensibilmente più basso di quello che si registrava qualche decennio fa, mentre la disaffezione si è plasticamente materializzata anche con un astensionismo in costante crescita. Lo abbiamo visto in Italia, dove è andato a votare il 48,3% degli aventi diritto, con una diminuzione di oltre 6 punti rispetto alle europee di cinque anni fa, del 2019, il dato più basso di sempre e con una partecipazione che per la prima volta scivola sotto il 50%. Ma è un fenomeno che ha attraversato molte Nazioni in tutto il Continente, e che non può lasciarci indifferenti. 

Non può lasciare indifferente questo Parlamento, e a maggior ragione non può e non deve lasciare indifferenti le classi dirigenti europee, a partire da quelle che anche in questi giorni sembrano purtroppo tentate dal nascondere la polvere sotto il tappeto, dal continuare con vecchie e deludenti logiche come se nulla fosse accaduto, rifiutandosi i di cogliere i segnali chiari che giungono da chi ha votato e dai tanti che hanno deciso di non farlo. 

La prima domanda alla quale siamo chiamati a rispondere, dunque, è cosa l’Unione Europea abbia fin qui sbagliato, e come sia possibile invertire questa tendenza. Dovremmo cioè avere l’onestà intellettuale di interrogarci, senza pregiudizi o posizioni preconcette, sulle criticità e sulle ragioni che hanno spinto una parte sempre più consistente dei cittadini europei a non riconoscersi adeguatamente nel processo di integrazione politica del nostro continente.

La prima, storica conquista del processo di integrazione è stata la capacità di assicurare la pace all’interno dei confini europei. Dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi, infatti, non ci sono stati conflitti tra le Nazioni dell’Unione. E se a noi oggi può sembrare una conquista scontata, guardando alla millenaria storia europea e ai numerosissimi conflitti che hanno attraversato il nostro Continente, ci accorgiamo che scontato non era affatto. Così come ci accorgiamo che non è scontato se guardiamo a cosa accade appena fuori dai confini europei. 

La seconda grande conquista, connessa alla prima, cioè la pace e la stabilità, è che quella pace e quella stabilità hanno, nei decenni, assicurato anche crescita e sviluppo. Ma quella crescita e quello sviluppo, negli anni, hanno rallentato sempre di più, e questo è indubbiamente uno degli elementi che hanno contribuito ad allontanare la percezione degli europei dall’Unione, perché l’Unione è sembrata sostanzialmente incapace di invertire questa tendenza.

Il problema principale, a mio personale avviso, è dato da un’Unione Europea sempre troppo uguale a se stessa, e a tratti percepita perfino autoreferenziale, tanto da non essere in grado di adeguare la sua strategia a un mondo che attorno cambiava, come se i suoi primati nello scacchiere geopolitico fossero immutabili e non invece conquiste da difendere e rilanciare. 

In passato era più che legittimo, e giusto, che l’Unione rivolgesse la sua attenzione soprattutto al proprio interno, perché guardare al proprio interno significava di fatto guardare a una parte estremamente significativa del mondo, in termini di peso economico e in termini di peso geopolitico. Ma nel tempo lo scenario è drasticamente cambiato, eppure l’Europa ha continuato a guardare prevalentemente al suo interno, come se non si accorgesse di quello che stava accadendo fuori dai suoi confini.

Qualche dato può essere utile a seguire questo ragionamento.

Nel 1990 il PIL di quella che al tempon era un Europa a 12 Stati membri, rappresentava circa il 27,5% del PIl mondiale. Nel 2022, con 27 Stati membri, il suo peso era sceso a meno del 16,5%. E mentre l’economia europea perdeva progressivamente forza, fuori dai suoi confini l’economia degli Stati Uniti rimaneva più o meno stabile, mentre l’economia cinese cresceva esponenzialmente. Nel 1990 il PIL cinese rappresentava l’1,8% del Pil mondiale, nel 2022 era oltre il 18%. Lo scenario mutava, ma l’Unione europea non adeguava la sua strategia.

Così in questi lunghi anni ha continuato a prevalere una visione eurocentrica, come se le scelte degli altri dovessero dipendere necessariamente dalle nostre. Io credo sia questo il passaggio storico che è mancato fin qui, e che ha portato in questi anni le istituzioni comunitarie ad avere l’approccio che i cittadini con il voto ci dicono di non condividere. 

In questo avvilupparsi su sé stessa fingendo di non vedere il contesto, l’Unione europea si è progressivamente trasformata – come tante volte abbiamo denunciato - in una sorta gigante burocratico. E come se non bastasse, lì per burocrazia si sono spesso sommate scelte ideologiche e il combinato disposto delle due cose, burocrazia e ideologia, ha costruito buona parte della distanza che oggi esiste tra cittadini e istituzioni comunitarie. 

La percezione che hanno avuto gli italiani e gli europei è quella di un’Unione troppo invasiva, che pretende di imporre ai cittadini cosa mangiare, quale auto guidare, in che modo ristrutturare la propria casa, quanta terra coltivare, quale tecnologia sviluppare, e così via su moltissimi aspetti che riguardano la vita quotidiana. E mentre fare questo, di normare tutto, finendo anche col rischio di omologare culture, tradizioni, specificità geografiche e sociali, rimane invece più debole sulla sua capacità di incidere sugli scenari globali, di avere autorevolezza e credibilità nelle aree di crisi, di avere una politica estera e di sicurezza comune, di controllare le sue catene di approvvigionamento fondamentali, con il risultato di rendersi sempre più vulnerabile agli shock esterni.

Per paradosso, la correttezza da questa analisi è dimostrata dal fatto che con l’avvicinarsi delle elezioni che sono cominciate ad arrivare alcune risposte in controtendenza positiva rispetto al quadro che ho descritto. Solo che era tardi, e quelle risposte sono giustamente sembrate più l’eccezione che la regola. 

Allora io penso sia chiaro a tutti che quello che l’Europa ha di fronte oggi è un compito molto arduo. E quel compito è ripensare completamente alle sue priorità, il suo approccio, la sua postura. Riscoprire il suo ruolo nella storia, particolarmente nella porzione di storia che stiamo attraversando. 

Personalmente continuo a ritenere che la risposta a questo declino stia nella necessità di fare meno e di farlo meglio. Concentrarsi su poche, grandi materie, quelle cioè sulle quali gli Stati nazionali non sono in grado di competere da soli, e lasciar invece decidere agli Stati nazionali ciò che non ha bisogno di essere centralizzato.  Privilegiare al gigante burocratico che moltiplica regole insostenibili, e a volte incompatibili con la crescita della sua competitività, un gigante politico forte della sua civiltà millenaria, consapevole della sue ineguagliabili eccellenze in molti campi, e che aiuta i propri sistemi produttivi a competere a testa alta sullo scenario globale.

Cosa significa nel concreto? Significa che un’Europa protagonista nel mondo deve porsi, ad esempio, la questione di aumentare la propria autonomia strategica, cioè la capacità di costruire catene di approvvigionamento sicure e affidabili, e diminuire così le proprie dipendenze strategiche. La doppia crisi - prima la pandemia e poi la guerra in Ucraina - ha mostrato quanto fosse sbagliata l’idea di un’Europa che giocava quasi esclusivamente il ruolo di piattaforma commerciale, intermediando tra l’America e i giganti asiatici, lasciando ad altri il controllo delle catene del valore. Quando gli shock sono arrivati e quelle catene del valore, che erano troppo lunghe e poco affidabili, si sono interrotte, l’Europa si è scoperta del tutto esposta ad eventi che non poteva prevedere né controllare. Abbiamo capito allora quanto – su materie prime fondamentali come quelle critiche, l’energia, diversi settori strategici - il nostro destino fosse legato alla volontà di attori purtroppo non sempre amici. Con le conseguenze drammatiche che questo ha avuto, e continua ad avere, sui nostri sistemi economici e produttivi.

È da questa consapevolezza che il governo intende partire per affrontare i lavori di questo Consiglio europeo, a partire dal punto molto importante iscritto all’ordine del giorno che riguarda l’Agenda strategica 2024-2029, cioè il quadro delle priorità che l’Europa intende darsi per i prossimi anni. L’Italia ha chiesto e ottenuto che, nel preambolo dell’Agenda, venissero richiamati due principi cardine della costituzione europea e dei quali Parlamento europeo, Consiglio e Commissione devono a nostro avviso tenere maggiormente conto nella loro azione: il principio di sussidiarietà e il principio di proporzionalità. 
Significa che l’Unione europea dovrà concentrarsi sui grandi temi strategici, su quelle materie e su quelle sfide dove è essenziale unire le forze, ed evitare di occuparsi di quei settori dove gli Stati nazionali, anche con le loro articolazioni locali, possono ottenere risultati migliori in una logica di prossimità ai cittadini. 

E sempre con questa logica abbiamo chiesto e ottenuto che nel preambolo dell’Agenda strategica fosse richiamato il tema delle risorse, perché è semplicemente impensabile che un singolo Stato Membro, persino se si trova nella migliore condizione possibile dal punto di vista della capacità fiscale, possa affrontare da solo gli investimenti necessari per alcune delle grandi sfide che l’Europa ha davanti e che dichiara di voler affrontare. Penso certo al rafforzamento della competitività, ma anche alla transizione energetica e ambientale, alla politica di difesa e sicurezza, e ovviamente penso al governo dei flussi migratori.

Reputiamo, cioè, che sia indispensabile per l’Unione dotarsi di risorse e strumenti comuni adeguati, per sostenere gli investimenti che siamo chiamati a fare. Come allo stesso tempo consideriamo essenziale stimolare gli investimenti privati, che oggi sono inevitabilmente rivolti verso mercati che si dimostrano più dinamici e intraprendenti.

L’obiettivo è rendere l’Europa un luogo dove sia conveniente investire. Applicare anche in Europa il principio che questo governo sta applicando in Italia, ovvero “non disturbare chi vuole fare”. Significa creare le condizioni per consentire a chi vuole investire e fare impresa di farlo al meglio. Significa riuscire a essere più attrattivi degli altri. E questo comporta prima di tutto disboscare pesantemente quella selva burocratica e amministrativa che ha finito col rendere il quadro normativo europeo un percorso a ostacoli per le imprese, in particolare per le micro, piccole e medie imprese, a più riprese richiamate nelle dichiarazioni di principio che abbondano tra i documenti dell’Unione, ma poi spesso dimenticate - o addirittura penalizzate, quando dalle parole si passa ai fatti. Penso che il nuovo presidente della Commissione Europea dovrebbe immaginare una delega specifica alla sburocratizzazione, dando così un segnale immediato del cambio di linea che intende imprimere. 

Contestualmente, è necessario elaborare una strategia che protegga le aziende europee dalla concorrenza sleale, le faccia crescere, tuteli le filiere produttive e industriali, difenda i marchi e le eccellenze, concretizzando il principio secondo il quale il mercato può essere libero solamente se è anche equo.  
Molto dell’approccio italiano si ritrova nell’Agenda strategica quando si parla di uno dei grandi temi di cui l’Europa dovrà occuparsi nei prossimi anni. E mi riferisco al governo dei flussi migratori. L’Agenda indica come priorità della UE la difesa dei suoi confini esterni, il contrasto all’immigrazione irregolare di massa, l’impegno per stroncare il business disumano dei trafficanti di esseri umani, che lucrano sul legittimo desiderio delle persone di cercare condizioni di vita migliori di quelle che hanno, desiderio che questi cinici, disumani schiavisti del terzo millennio trasformano spesso in tragedia, chiaramente dopo aver intascato lauti guadagni.

Io credo che l’Europa, culla della civiltà occidentale, non possa più tollerare che un crimine universale come la schiavitù, che noi europei siamo stati i primi a debellare secoli fa, sia tollerato sotto altre forme. Ma l’immigrazione irregolare di massa non verrà mai fermata se non si coinvolgono nella lotta ai trafficanti le Nazioni di origine e di transito – come su impulso italiano l'Europa ha già fatto attraverso i Memorandum con Egitto e Tunisia, e dovrà continuare a fare replicando questo modello in molte altre Nazioni – e se non si affrontano a monte le cause che spingono una persona ad abbandonare la propria terra. E anche qui, nell’Agenda strategica, l’Unione europea si impegna ad affrontare le cause profonde della migrazione. Si mette, cioè, nero su bianco un principio che noi sosteniamo da tempo, ovvero che il primo diritto che è nostro compito garantire è il diritto a non dover emigrare, potendo trovare nella propria terra le condizioni per la propria realizzazione.

Questo obiettivo presuppone la necessità di costruire un modello novo di cooperazione con le Nazioni africane, affinché queste Nazioni possano crescere e prosperare con le risorse che possiedono. Una cooperazione da pari a pari, capace generare benefici per tutti. E siamo soddisfatti del fatto che anche questo approccio si ritrovi nell’Agenda strategica. 

Si tratta di un approccio sul quale l’Italia ha fatto scuola con il Piano Mattei per l’Africa, che stiamo progressivamente implementando con sinergie strutturate e attività di raccordo con le altre iniziative in campo sullo stesso obiettivo, sia a livello europeo con il Global Gateway della Unione europea, sia a livello internazionale con la Partnership for Global Infrastructure and Investment, uno dei progetti strategici lanciati in ambito G7 per lo sviluppo e la crescita economica delle Nazioni più fragili, in particolare in Africa e in Asia. L’Italia ha ad esempio deciso di contribuire, attraverso il Global Gateway della Ue, alla realizzazione del Corridoio di Lobito, l’imponente sistema infrastrutturale che ha come obiettivo quello di collegare l’Angola allo Zambia, attraverso la Repubblica Democratica del Congo, e di connettere così i mercati regionali a mercati  globali.

Queste sono le risposte che ci chiedono i leader, i governi e i popoli africani. Non ci chiedono l’elemosina, né quell’ipocrita e un po’ pelosa solidarietà che si ferma a chi riesce a superare i viaggi della speranza, fingendo di non vedere chi è così povero da non potersi permettere di pagare i trafficanti per tentare quella traversata.

Gli africani non chiedono la nostra carità. Ci chiedono investimenti e progetti condivisi da realizzare insieme. Ci chiedono rispetto e fatti concreti. E non c’è nulla di più concreto che investire in infrastrutture o in energia. E su questo punto l’Italia ha un vantaggio, che può diventare un vantaggio strategico per l’Europa nel suo complesso. La nostra posizione di piattaforma naturale nel Mediterraneo ci offre l’opportunità di diventare un hub di approvvigionamento, cioè un ponte tra il Mediterraneo orientale, l’Africa e l’Europa. Obiettivo che stiamo perseguendo con diversi progetti già avviati e che intendiamo progressivamente implementare. Penso, su tutti, all’interconnessione elettrica ELMED Italia-Tunisia o al Corridoio H2 Sud per il trasporto dell’idrogeno dal Nord Africa verso l’Europa. 

L’Agenda strategica si occupa anche di come favorire la migrazione legale, perché l’obiettivo che ci prefiggiamo tutti è ristabilire la legalità nel governo dei flussi migratori. Legalità vuol dire una cosa semplice, troppo spesso dimenticata in passato: in Italia, e in Europa, si entra solo legalmente. E significa anche che di gestire gli ingressi legali si occupano le istituzioni, non gli scafisti.

L’Italia, lo ricordo, ha programmato nel periodo 2023-2025 circa 450 mila ingressi regolari, anche per rispondere alle esigenze del nostro sistema produttivo, prevedendo quote privilegiate proprio per quelle Nazioni con le quali collaboriamo sul fronte migratorio in termini di rimpatri, di contrasto alle partenze e di lotta contro i trafficanti. Penso, ad esempio, alla Tunisia con cui abbiamo sottoscritto un accordo che prevede procedure semplificate per il rilascio di visti e permessi di soggiorno. 

Ma contestualmente alla programmazione di un decreto flussi triennale abbiamo anche avviato un monitoraggio sull'andamento di questi flussi, e le evidenze che ne sono scaturite lasciano drammaticamente ritenere che la criminalità organizzata si sia infiltrata nella gestione dei permessi di soggiorno per scopo di lavoro, ragione per la quale ho presentato un esposto alla Procura Nazionale Antimafia e annunciato modifiche alla legge che regola la materia. Non consentiremo alle mafie di gestire gli ingressi in Italia, come temo facciano da tempo, e mi stupisce, francamente, che nessuno prima di noi se ne fosse accorto. 

Sono convinta, inoltre, che in materia migratoria l’Europa debba cercare soluzioni innovative, come abbiamo fatto noi in Italia. Una di queste soluzioni innovative è certamente quella che abbiamo indicato con il Protocollo Italia-Albania, per processare in territorio albanese, ma sotto giurisdizione italiana ed europea, le richieste di asilo. Quando ho sottoscritto il Protocollo con il Primo Ministro Rama, a cui voglio rinnovare anche in quest’Aula il mio ringraziamento per il grande gesto dallo spirito europeo che ha compiuto, mi sono augurata che potesse diventare un modello, e con orgoglio oggi possiamo dire che lo sta diventando. La maggioranza degli Stati membri, infatti, ha di recente sottoscritto e inviato un appello alla Commissione europea per chiedere che la UE segua il modello italiano dell’Accordo con l'Albania. Persino la Germania, attraverso le parole della socialdemocratica Ministra dell’Interno Nancy Faeser, ha dichiarato di seguire “con interesse” questo accordo.

Qui il cambio di passo c’è, e si vede. E sono orgogliosa del contributo che l’Italia ha dato in questa direzione per invertire la rotta. Infatti, ricordo sommessamente che prima dell’insediamento di questo Governo il dibattito in Europa si focalizzava sostanzialmente su un punto, cioè su come redistribuire tra i 27 Stati Ue gli immigrati che sbarcavano soprattutto in Italia. Ora il paradigma è completamente cambiato, ma è fondamentale che nei prossimi mesi e anni questo approccio si consolidi e diventi strutturale. La stessa lettera che la Presidente von der Leyen ha ieri indirizzato ai Capi di Stato e di Governo va in questa direzione, stabilendo che questo approccio debba rimanere al centro delle priorità anche del prossimo ciclo istituzionale.

Il Consiglio europeo si occuperà anche di un’altra priorità strategica, ovvero di come dotarsi di una politica di sicurezza e difesa all’altezza del ruolo dell’Europa sullo scenario globale. Per molto tempo ci siamo illusi che la pace garantita all’interno dei nostri confini dal processo di integrazione europea avrebbe contagiato anche i nostri vicini. Ma la storia è andata diversamente, e la guerra di aggressione russa all’Ucraina lo ha dimostrato

Ci siamo anche crogiolati nell’idea che qualcun altro avrebbe garantito per sempre la nostra sicurezza, ma anche questo è stato un errore e dobbiamo esserne consapevoli. Ecco perché è fondamentale accelerare la strada verso una politica industriale comune nel settore della difesa, aumentando la collaborazione tra i nostri campioni nazionali in una logica di sovranità europea.

In ultimo, dobbiamo anche assumerci le nostre responsabilità: in questi anni di conflitti e di minacce alle porte dell’Europa, dobbiamo ricordarci che la libertà e la sicurezza hanno un costo e che per avere pace ai nostri confini dobbiamo essere capaci di esercitare la deterrenza necessaria a raggiungere quell’obiettivo. E questo vale ancor di più se ci poniamo l’obiettivo ambizioso, ma a mio avviso improcrastinabile, di costruire quel solido pilastro europeo della NATO, affiancato al pilastro statunitense, che possa metterci nelle condizioni di affrontare le nuove sfide alla sicurezza, incluse le minacce che investono il Mediterraneo e il Medio Oriente. Posizione che il Governo italiano ha sempre sostenuto, e di cui ci faremo interpreti anche al Vertice NATO previsto Washington tra pochi giorni. 

Spendere in difesa significa investire nella propria autonomia, nella capacità di contare e decidere, nella possibilità di difendere al meglio i propri interessi nazionali. È questa la strada che crediamo debba seguire l’Europa nei prossimi anni, se vuole essere all’altezza della propria missione nel mondo. Ma anche qui per farlo è fondamentale affrontare il nodo delle risorse necessarie a fare il tanto decantato salto di qualità. 

Da questo punto di vista, abbiamo accolto positivamente i passi in avanti nelle politiche di finanziamento della Banca europea degli investimenti, e il nostro auspicio è che la BEI possa ulteriormente incrementare gli investimenti anche in materia di difesa, salvaguardando al contempo la piena capacità della Banca di finanziarsi sui mercati internazionali. Credo che sia anche necessario un dibattito per immaginare soluzioni innovative, aprendo anche alla possibilità di obbligazioni europee per questo genere di investimenti. Approfondiremo e valuteremo con attenzione le opzioni di finanziamento che la Commissione ci presenterà a questo Consiglio Europeo.

Le esigenze di sicurezza e difesa dell’Unione europea sono strettamente legate al processo di allargamento, o  - come sapete che preferisco chiamarlo - di riunificazione, dell'UE. Sarà uno dei temi in agenda, e l’Italia sostiene il cammino di avvicinamento all’Europa di tutti i candidati: Balcani Occidentali, Ucraina, Moldova, Georgia. Ci siamo espressi a favore della convocazione delle prime Conferenze intergovernative che apriranno formalmente i negoziati per Ucraina e Moldova e manteniamo aperto il canale di dialogo con la Georgia, con l’auspicio che possa rivedere i passi compiuti con la recente legislazione sui cosiddetti “agenti stranieri”. Ma ovviamente il processo di adesione di tutte le Nazioni candidate deve restare ancorato al rispetto dei valori europei e al progressivo allineamento agli standard politici ed economici dell’Unione europea. 

Il Consiglio europeo confermerà, ancora una volta, il suo sostegno alla causa ucraina. Perché difendere l’Ucraina è nell’interesse dell’Europa, ed equivale a difendere quel sistema di regole che tiene insieme la comunità internazionale e protegge ogni Nazione.

Vale la pena ribadire che se l’Ucraina fosse stata costretta ad arrendersi, oggi non ci sarebbero le condizioni minime per un negoziato, ma staremmo discutendo dell’invasione di uno Stato sovrano, con le conseguenze che possiamo tutti immaginare. Pace non significa mai resa, e confondere la pace con la sottomissione creerebbe un pericoloso precedente per tutti. Voglio ribadire anche in quest’Aula, come ho già fatto in ambito G7 e alla Conferenza sulla pace in Svizzera, che ogni nostro sforzo è finalizzato ad aiutare l’Ucraina a guardare al futuro. Un futuro di pace, prosperità e benessere. Credo sia stato molto importante, in sede G7, raggiungere l’accordo politico per l’utilizzo degli interessi generati dagli asset russi immobilizzati a garanzia di un prestito che verrà fornito dagli Stati Uniti all’Ucraina. L’Europa sarà chiamata a rendere questo impegno politico tecnicamente percorribile, e si tratta di un passaggio fondamentale non solo per il sostegno immediato, ma anche perché in un eventuale tavolo negoziale dovrà chiarirsi anche chi debba essere a pagare per la ricostruzione dell’Ucraina. 

Fondamentale, in questo ambito, anche l’impegno europeo per garantire l’accesso ai porti commerciali e la libertà di navigazione nel Mar Nero, elementi indispensabili all’esportazione di grano da parte dell’Ucraina e alla sicurezza alimentare globale. 

È nell’interesse dell’Europa compiere ogni sforzo per una soluzione di pace in Medio Oriente, che non può che essere basata sul principio di due popoli, due Stati. Con il diritto di Israele pienamente riconosciuto da tutti gli attori regionali di vivere in pace e senza aggressioni e il diritto del popolo palestinese di avere un proprio Stato da far crescere e prosperare. L’Italia sostiene, come ribadito anche nel comunicato finale del Vertice G7, la proposta di mediazione degli Stati Uniti, coadiuvata dalla collaborazione di Egitto e Qatar, per un cessate il fuoco immediato, il rilascio di tutti gli ostaggi e un significativo aumento dell’assistenza umanitaria alla popolazione civile di Gaza. Su questo versante, però, l'Europa può e deve giocare un ruolo decisamente più attivo. 

Un’Europa consapevole del proprio ruolo geopolitico non può non guardare con rinnovata attenzione a ciò che succede nel Mediterraneo, che statrovando una sua nuova centralità e ha riscoperto la sua antica vocazione di crocevia di interconnessioni strategiche. Commerciali, energetiche, digitali. Anche per questo, siamo convinti che l’Unione europea di domani debba mettere il rapporto con il Vicinato Sud tra le priorità della sua azione esterna. Perché il Mediterraneo è la nostra casa, e sarebbe autolesionistico non curarsene, o peggio consegnarne le chiavi ad altri attori. 

Una delle priorità che i cittadini ci consegnano con il loro voto è poi riportare buon senso e pragmatismo nella transizione ecologica ed energetica, rimettendo mano alle norme più ideologiche del “Green Deal” e assicurando la neutralità tecnologica.

Come ho detto molte volte siamo i primi difensori della natura, ma la vogliamo difendere con l’uomo dentro.

In questi anni si è fatto, invece, spesso l’esatto contrario. Le attività umane sono state considerate troppo spesso nocive per la natura e la prospettiva ‘green’ è stata perseguita anche a costo di sacrificare intere filiere produttive e industriali, come quella dell’automotive. Nessuno ha mai negato che l’elettrico possa essere una parte della soluzione per la decarbonizzazione dei trasporti, ma non ha alcun senso auto-imporsi il divieto di produrre auto a diesel e benzina a partire dal 2035 e condannarsi di fatto a nuove dipendenze strategiche, come l’elettrico cinese. Sostenere il contrario è stata semplicemente una follia ideologica, che lavoreremo per correggere. Ridurre le emissioni inquinanti è la strada che vogliamo seguire, ma con buon senso e concretezza, sfruttando tutte le tecnologie disponibili senza andare a scapito della sostenibilità economica e sociale, difendendo e valorizzando così le produzioni europee e salvaguardando decine di migliaia di posti di lavoro.

Con lo stesso approccio ci siamo battuti per modificare la direttiva sulle case ‘green’, nella quale siamo riusciti ad eliminare l’obbligo di passaggio di classe energetica in capo ai proprietari. Gli obiettivi della direttiva rimangono, però, ancora troppo ravvicinati e troppo onerosi, soprattutto in assenza di incentivi europei. E lo sono tanto più per l’Italia, che deve fare i conti con la voragine creata nei conti pubblici dal Superbonus 110%. È tra le nostre priorità rimettere mano anche a questa normativa.

E’ una priorità per questo Governo anche riportare nelle Istituzioni europee il giusto rispetto per gli uomini e le donne che nella natura vivono e lavorano da generazioni. Come abbiamo fatto spesso in Consiglio europeo. Mi riferisco ad agricoltori, allevatori, pescatori, insomma a coloro che con il proprio lavoro garantiscono la sopravvivenza alimentare delle popolazioni, ma anche la preziosa manutenzione della stessa natura in cui operano. Troppo spesso negli ultimi anni questi imprenditori sono stati colpiti da provvedimenti normativi furiosamente ideologici, e solo l’imminenza delle scorse elezioni europee, insieme all’azione decisa del nostro governo, ha consentito un primo, seppur insufficiente, ripensamento riguardo agli errori compiuti a loro danno. Errori che non devono ripetersi.

D’altra parte, approfitto di questo passaggio per condividere una riflessione su un gravissimo episodio di cronaca che mi ha lasciato esterrefatta, come a voi. Parlo dell’orribile, disumana, morte di Satnam Singh, trentunenne bracciante che veniva dall’India; una morte orribile e disumana per il modo atroce in cui si è verificata, ma ancor di più per l’atteggiamento schifoso del suo datore di lavoro. Dobbiamo dircelo, questa è l’Italia peggiore. Quella che lucra sulla disperazione dei migranti, e sulla piaga dell’immigrazione senza regole. La vergogna del caporalato è lungi dall’essere sconfitta, nonostante gli sforzi compiuti da governi di diverso colore. 

Non intendiamo smettere di combatterla, questo Governo lo ricordo tra i suoi primi atti ha approvato il decreto sulla condizionalità sociale che introduce sanzioni relative agli aiuti comunitari per le imprese che non rispettano le regole sul lavoro, sulla sicurezza, sulla salvaguardia della salute dei lavoratori, cosi come ricordo che è stato questo governo a reintrodurre il reato penale di somministrazione illecita di manodopera, che nel 2016 era stato depenalizzato dall’allora Governo Renzi, e che dalle nostre risultanze ispettive risultava emergere come la fattispecie di reato cresciuta di più.

Così come abbiamo aumentato il numero di ispettori del lavoro e carabinieri del nucleo tutela del lavoro, abbiamo sbloccato i ruoli degli ispettori INPS e INAIL che erano stati bloccati dai precedenti governi e approfitto per annunciare che intendiamo anticipare le assunzioni previste per INPS e INAIL e destinate proprio all'incremento dell’azione ispettiva. Intendiamo anche introdurre, anticipandolo, il sistema informativo contro il caporalato, che ci consente di mettere in relazione tutte le banche dati, per intensificare il monitoraggio e la lotta al fenomeno. Dunque, pene più severe per i criminali, e controlli molto più stringenti. Ma intendiamo anche valorizzare la rete agricola di qualità con il concorso, e una maggiore responsabilizzazione, delle rappresentanze sindacali e datoriali. In una nazione che funziona economicamente e socialmente, ognuno deve fare la propria parte. Noi legislatori,  così come chi rappresenta la spina dorsale della filiera produttiva italiana.

Costruire un’Europa forte e protagonista nel mondo significa anche affrontare quella che è, probabilmente, la sfida dalla quale dipendono tutte le altre. Che è la sfida demografica. L’inverno demografico colpisce tutt’Europa e non c’è nessuna Nazione che raggiunga il “tasso di sostituzione”, cioè il numero di figli per donna che garantisce la continuità della popolazione. Ecco, noi vorremmo che questa sfida la si potesse affrontare tutti insieme, per impedire che quella di “Vecchio Continente” da etichetta storica qual è diventi, anche, una infausta previsione del futuro. 

Ecco perché crediamo che l’Europa, ora, debba porsi anche il problema di come considerare gli investimenti per la natalità. E noi siamo convinti che ogni euro speso sulla natalità, sui servizi, sugli aiuti alle famiglie, sulla conciliazione vita-lavoro, sia un euro speso in un investimento produttivo, perché è un investimento sul futuro stesso dei nostri sistemi sociali, in Italia come in Europa. Garantire l’equilibrio di un esercizio o di un settennato di bilancio servirà a poco se nel medio-lungo periodo sarà l’intero sistema a diventare insostenibile, se verrà meno quella “next generation” alla quale l’Europa ha intitolato i piani di ripresa post-pandemia ma che rischia semplicemente di non esistere. Una delle grandi rivoluzioni che l’Europa del futuro deve portare avanti è proprio quella di sostenere finalmente, e con forza, la sfida demografica. 

Il Governo si batterà affinché il tema della natalità sia specificatamente inserito tra le priorità dell’Agenda strategica. 
Molte di queste priorità sono contenute nel programma della Presidenza di turno del Consiglio europeo, la presidenza ungherese, che, come sapete, prenderà l’avvio tra pochi giorni, e nei giorni scorsi ho avuto modo di approfondire queste priorità anche con il Primo ministro Orban, in visita a Roma, Parigi e Berlino. 

Ma per portare avanti questa agenda ambiziosa serve una volontà politica comune. Non è tanto un problema di regole, è una questione di visione. E qui torniamo all’inizio del mio intervento. 
I cittadini, nelle elezioni che si sono appena svolte, hanno detto chiaramente qual è il modello che preferiscono, tra quello portato avanti fin qui e quello che proponiamo. Tra l'Europa dei compromessi al ribasso e quella delle sfide al rialzo. Se c’è un dato indiscutibile che è emerso da questa tornata elettorale è la bocciatura delle politiche portate avanti dalle forze di governo in molte delle grandi Nazioni europee, che sono anche, molto spesso, le forze che hanno impresso le politiche dell’Unione di questi anni.

Questo giudizio negativo emerge dal peso dei seggi ottenuti dai partiti di governo sul totale degli eletti: in Francia le forze di governo hanno eletto soltanto il 16% dei parlamentari europei spettanti a quella Nazione, in Germania il 32%, in Spagna il 34%. Solo l’Italia, tra le grandi Nazioni europee, ha un dato positivo con quasi il 53% degli eletti che è espressione delle forze di governo. 

Certo, c’è anche chi sostiene che i cittadini non siano abbastanza maturi per prendere determinate decisioni e che l’oligarchia sia la sola forma accettabile di democrazia, ma io non sono di questo avviso. Ho combattuto questo principio surreale in Italia, e intendo combatterlo anche in Europa.

Noi, cioè, siamo convinti che il popolo abbia sempre ragione e che sia dovere di chiunque ricopra un incarico di responsabilità seguire le indicazioni che arrivano dai cittadini. Personalmente non conosco alternative alla democrazia, e mi batterò sempre contro chi vorrebbe sublimare, in questo caso anche a livello europeo, una visione oligarchica e tecnocratica della politica e della società. Non mi stupisce che qualcun'altro lo faccia, in alcuni casi perché appartiene alle sue basi culturali, in altri casi perché è una lettura che consente di tentare di mantenere un potere anche da posizioni di debolezza. 

Non mi stupisce che quest’approccio sia emerso prima, durante e dopo la campagna elettorale. Ma è un elemento che non può lasciarci indifferenti, soprattutto in un’Aula parlamentare. Perché nessun autentico democratico, che creda nella sovranità popolare, sancita dall’articolo 1 della Costituzione, può in cuor suo considerare accettabile che in Europa si tentasse di trattare sugli incarichi di vertice ancor prima che i cittadini si recassero alle urne. Poi ci si chiede perché i cittadini non considerino importante andare a votare. 

Dirò come sempre quello che penso. Non mi pare sia emersa finora la volontà di tenere conto di ciò che i cittadini hanno detto nelle urne. Nel metodo e nel merito. Relativamente al merito, mi sono permessa di far notare che consideravo surreale che nella prima riunione, seppure informale, del Consiglio Europeo successiva alle elezioni, alcuni si presentassero direttamente con le proposte di nomi per gli incarichi apicali, frutto delle interlocuzioni tra alcuni partiti, senza neanche fingere di voler aprire una discussione su quali fossero le indicazioni arrivate dai cittadini con il voto. Perché prima di discutere chi debba fare cosa, andrebbe discusso la cosa vogliamo fare, e solo successivamente andrebbe scelta la persona migliore per concretizzare quelle indicazioni. 

E questo mi porta al metodo. Come se i cittadini non avessero dato un’indicazione diversa, in queste ore come in campagna elettorale, da più parti si è sostenuto che non si debba parlare con alcune forze politiche che in queste elezioni sono, guarda un po’, quelle che hanno visto crescere il loro consenso. 

Allora su questo consentitemi di fare un passo indietro. Le istituzioni europee, in passato, non sono mai state pensate in una logica di maggioranza e opposizione. Sono state pensate come soggetti neutrali, capaci di garantire così tutti gli Stati membri, indipendentemente dal colore politico del Governo di quegli Stati membri. Così gli incarichi apicali, Presidente del Consiglio, della Commissione, del Parlamento, più Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, sono stati normalmente affidati tenendo in considerazione i gruppi con la dimensione maggiore - e quindi tenendo in considerazione il responso elettorale - indipendentemente da possibili logiche di maggioranza o opposizione. Perché la logica della maggioranza e dell’opposizione si materializza nel parlamento, con maggioranze che, tra l’altro, cambiano da dossier a dossier data la complessità del quadro europeo. 

Oggi si sceglie di aprire uno scenario completamente nuovo. E la logica del consenso, su cui si sono sempre basate gran parte delle decisioni europee, viene scavalcata dalla logica dei caminetti nei quali alcuni pretendono di decidere per tutti, sia per quelli che sono della parte politica avversa, sia per quelli di Nazioni considerate troppo piccole per essere degne di sedersi ai tavoli che contano. Una sorta di “conventio ad excludendum” in salsa europea, che a nome del Governo italiano ho apertamente contestato e che non intendo accettare.

Se vogliamo rendere un buon servizio all’Europa e alla sua credibilità, dobbiamo dimostrare di aver compreso gli errori del passato e avere in massima considerazione le indicazioni che sono arrivate dai cittadini con il voto. E se anche qualcuno preferisce ignorarle, quelle indicazioni sono molto chiare: i cittadini chiedono un’Europa che sia più concreta e che sia meno ideologica. Ma l’errore che si sta per compiere, con l’imposizione di questa logica, e di una maggioranza, tra l’altro, fragile e destinata probabilmente ad avere difficoltà nel corso della legislatura europea, è un errore importante. Non per la sottoscritta, o per il centrodestra, e neanche solo per l’Italia, ma per un’Europa che non sembra comprendere la sfida che ha di fronte, o che la comprende ma preferisce in ogni caso dare priorità ad altre cose.

Né intendo sostenere una tesi diversa da quella nella quale credo, semplicemente per chiedere in cambio un ruolo che all’Italia spetta di diritto. Non mi addentrerò, lo comprenderete, nel merito delle tante interlocuzioni che in questi giorni sto avendo, che continuerò ad avere. Voglio limitarmi a dire che abbiamo chiesto e torneremo a chiedere un cambio di passo politico, prima di tutto. In linea con il messaggio dato dalle urne. E poi ovviamente intendiamo batterci per l’Italia.

Noi siamo un Paese fondatore dell’Ue, l’economia italiana è la terza d'Europa, la nostra manifattura è la seconda del Continente, siamo il terzo Stato membro per popolazione, abbiamo primati in tantissimi campi e oggi possiamo contare su una ritrovata stabilità politica e una solidità economica che ci hanno consentito di scrollarci di dosso i troppi pregiudizi dei quali eravamo vittime. 

Forti di ciò che siamo, e di ciò che l’Italia può ambire ad essere, mi auguro che su questo si possa agire con compattezza, e fare gioco di squadra per assicurare che la nostra Nazione sia rappresentata al meglio negli incarichi di vertice dell’Unione europea. Dobbiamo cioè lavorare per vederci riconosciuto ciò che spetta all’Italia come Nazione, non al Governo, non a questo o a quel partito, ma alla Nazione. Non sempre quel peso ci è stato adeguatamente riconosciuto in passato, ma il messaggio che i cittadini ci hanno consegnato con il voto è un messaggio chiaro, e non intendo farlo cadere nel vuoto. 

Vi ringrazio.